"Il lungometraggio MO è stato un lavoro lungo e difficile, anche sporco e melanconico, anche allegro per certi ritrovamenti dimenticati, come rastrellare un sottobosco dimenticato da anni, dove ritrovi le foglie secche di allora, funghi marci e qualche fiore.  Ci siamo proposti di raccogliere tutto, le pizze intere di copie perfette (poche), i rotoli misteriosi di pellicola e gli spezzoni sporchi: avevamo piazzato moviola e proiettore al centro, la roba era tutto intorno, bene ordinata o a mucchi o sparsa.  Quella moviola sembrava un tritatutto, entrava da una parte pellicola nera ricciolosa, passava nella luce e veniva fuori come file di immagini in memoria, da tenere o da gettare.  Abbiamo gettato poco, tenevamo quasi tutto (in vista del montaggio non si sa mai), ma non lo spezzone più corto di 24 fotogrammi.  Abbiamo lavorato giorni e giorni su quella moviola di ghisa quasi cieca a mettere in fila dal principio del tempo di Monte Olimpino la pellicola bianco nero colore positivo invertibile con problemi di giunte dov'era incompatibile; ma il problema più grosso era di ricerca, dare un senso alla cosa via via che si attaccava, tanti piccoli problemi da risolvere per risolvere il grosso.  Il senso è venuto fuori, ci voleva la voce fuori campo a raccontarlo sulle immagini, ma soldi non ce n'erano più, fine."

(Marcello Piccardo, "La collina del cinema", Nodo libri - Como)